- Identità fasciate di
Marco Ceresa
Origine:Hong
Kong
Durata: 124'
Soggetto: Chen Xue
Sceneggiatura: Yan Yan Mak
Fotografia: Charlie Lam
Montaggio: Yan Yan Mak
Interpreti: Josie Ho, Eric Kot, Tian
Yuan, Isabel Chan, Joman Chaing
Produzione: Lotus Film.
Flavia, una
trentenne insegnante di Hong Kong, sposata con un figlio,
e' arrivata ad un momento della propria vita in cui ha
bisogno di scegliere tra la famiglia e una nuova storia
d'amore. Solo che la scelta e' piu' traumatica del solito,
poiche' fa emergere una parte di se' che appartiene al
passato apparentemente seppellito: Flavia si innamora
infatti di una giovane ragazza, incontrata per caso in
un supermercato, e lo fa con passione ed abbandono, ritrovando
la stessa intensita' di un suo precedente amore lesbico
vissuto durante l'adolescenza, nei cruciali anni ottanta
segnati anche ad Hong Kong dai sommovimenti politici cinesi.
Contemporaneamente a questa storia d'amore e ai ricordi
di quella passata, un'altra coppia di ragazze, nella Hong
Kong di oggi, lotta contro i persistenti pregiudizi che
rendono drammatica la loro relazione.
Un
delicato, appassionato e sensuale melodramma ambientato
nella Hong Kong contemporanea, dove i pregiudizi sull'omosessualita',
ancora presenti pur nella modernita' del vissuto, rimandano
ad un recente passato caratterizzato da profonde trasformazioni
sociali ed esistenziali comuni a tutto l'estremo oriente.
Con personale partecipazione, Yan Yan Mak con "Butterfly"
non realizza soltanto uno splendido film "lesbico",
ma conferma, dopo il notevole esordio di "Ge ge",
la sua predilezione per storie abitate da persone alla
ricerca di una propria identita', anime spinte da una
forte determinazione a scoprire zone oscure del passato
proprio e di quello del loro paese: il tutto con una coscienza
sempre piu' evidente dei propri mezzi e un qualita' filmica
che rimanda ai migliori esempi di "genere" della
storia del cinema.
NOTE
DI REGIA
Butterfly racconta di un’insegnante, sposata, che
deve scegliere tra la famiglia e un nuovo amore. Da un
lato vi sono il marito e il figlio, ma dall’altro
vi è una donna. Dalla sua vita emergono alcuni
intrecci secondari: le sue compagne di studi lesbiche,
il suo primo amore omosessuale ai tempi della scuola e
il bisogno della madre anziana d’innamorarsi. È
una storia d’amore omosessuale, ed è anche
una storia sull’onestà dei sentimenti, onestà
verso se stessi! Alla fine del film Flavia dice: «Non
so. E’ tutta la vita che perdo delle cose. Adesso
ho perso anche mio figlio. Ma ho me stessa. Forse è
l’unica cosa che non perderò mai».
I tempi cambiano e la nostra società ha di fatto
accettato l’omosessualità. Tuttavia, nel
cinema Hong Kong cinema, l’omosessualità
è ancora trattata come una trovata commerciale.
Un film omosessuale nella società cinese deve offrire
a voci diverse l’opportunità di esprimersi.
Anche se la storia è raccontata dal punto di vista
di una donna, mostra i molti aspetti dell’identità
e della stessa storia, esattamente come l’aroma
del the che si sprigiona lentamente dall’infuso.
Questa storia non ha niente a che fare con la femminilità,
fa riflettere invece sulla cura e l’attenzione per
un atteggiamento corretto tra le persone. «Non sei
una farfalla se non sai volare!!».
Identità
“fasciate”
Di Marco Ceresa
“Io
sono lesbica”, comunica risolutamente la protagonista
di Hutie ad un addolorato (ma non troppo stupito)
marito. Se il cinema hongkonghese dell’ultimo decennio,
sia mainstream che New Queer Cinema, ci ha già
mostrato storie lesbiche di vario tipo, dal nostalgico
al soft-core (e una anche la Cina Popolare: Fish and
Elephant, di Li Yu, passato a Venezia
nel 2001), questa è la prima volta che all’identità
lesbica viene data una formulazione vocale così
chiara e al tempo stesso così pacata. Con Hutie
siamo lontani anni luce dalla nostalgia coloniale e flou
di The Intimates (Zhishu), di Jacob
Cheung (HK, 1997) dove l’omoerotismo è
sublimato nell’atto del pettinarsi a vicenda. O
dal soft-core proto-lesbico di Intimate
Confessions of a Chinese Courtesan (Ai Nu,
1972), di Chu Yuan (Chor
Yuen). O dalla marginalità sociale
delle protagoniste di Ho Yuk: Let's Love Hong Kong
(Yau Ching, HK, 2002), il primo lungometraggio lesbico
di Hong Kong diretto da una donna. E siamo ugualmente
lontani dal comodo postulato di una bisessualità
tradizionale cinese, che solo la colonizzazione culturale
occidentale avrebbe costretto nelle gabbie dell’omosessualità
e dell’eterosessualità (vedi l’insistenza
sul gioco dei ruoli e la commedia en travesti assai frequente
nel cinema di HK, ad es. Wu Yen, 2001, di Johnnie
To e Wai
Kai-fai). Hutie è la storia
di un coming out, nel senso di una pubblica affermazione
della propria identità sessuale, non della presa
di coscienza della stessa. Le protagoniste di Hutie
sono donne cinesi (potremmo addirittura dire generazioni
di donne: l’insegnante, le allieve) che amano altre
donne, senza grandi incertezze e senza problemi più
grandi o più dolorosi di quelli che devono affrontare
donne di molte culture non-cinesi in analoghe situazioni.
Il discorso sul peso della tradizione, la società
patriarcale, la ‘fasciatura dei piedi’ (più
o meno metaforica), il ruolo della donna nella società
confuciana, e tutti gli altri parametri di rapida obsolescenza
che siamo soliti applicare nella lettura di una società
in costante ed accelerata evoluzione come quella cinese,
non attraversano la visione contemporanea di Yan
Yan Mak. Le sue protagoniste si muovono in
uno spazio che non è più ‘cinese’
di qualunque ambiente borghese di qualsiasi società
industrializzata; i maschi, padri e mariti, non sono più
‘padroni’ o prevaricatori di qualsiasi altro
maschio in qualsiasi altra società avanzata; la
famiglia ‘tradizionale’ cinese non è
affatto compatta ed austera, ma si rinfaccia le sue storie
di corna senza troppi ritegni. Yan Yan Mak, come d’abitudine,
depura la sua materia da ogni sospetto di orientalismo
ed esotismo, di ‘lanterna rossa’, di ‘addio
mia concubina’, per concentrarsi sulle relazioni
amorose, sui corpi e sui desideri, e sull’esplicitazione
degli stessi. Laddove i film lesbici precedenti giocavano
ancora con la metafora, il non-detto, la dissolvenza (ed
una certa titillazione delle fantasie maschili), Yan Yan
Mak mostra (con la cruda nostalgia dello home video),
e soprattutto dice, o fa dire. La reiterata espressione
del desiderio e dell’amore fra due donne (Ti amo,
non posso vivere senza di te) fa uscire la relazione lesbica
dal silenzio, dall’invisibilità o dalla letteratura
erotica per maschi: il melodramma diventa un atto politico.
Ma qui il coming out stesso, la crisalide che diventa
farfalla, assume ulteriori connotazioni metaforiche. Rispetto
ad una Cina Popolare che rappresenta l’omologazione,
l’ortodossia, il modello unico, ovvero l’ideologia
eteronormativa, Hong Kong è l’altro, il diverso,
la minoranza, la queerness. Ovvero un immenso queerscape,
per usare il termine di Gordon Brent Ingram. E anche dopo
il ‘matrimonio per forza’ rappresentato dallo
handover, Hong Kong mantiene una proprio identità,
un’anima segreta, un bisogno/tentazione di spezzare
la crisalide, di (ri)sbocciare. La relazione giovanile
della protagonista si consuma al tempo dei moti di Piazza
Tian’anmen, quando il ricongiungimento di Hong Kong
con la ‘madrepatria’ era ancora da venire,
ma i rischi erano già evidenti sui teleschermi
di tutto il mondo. Jin, l’amante, è già
out, politicamente impegnata, sessualmente intraprendente,
inquieta, troppo avanti per i tempi, di certo troppo avanti
per Flavia. I carri armati che entrano in Piazza Tian’anmen
distruggono le illusioni di Jin, mentre Flavia cede alle
pressioni della famiglia. Handover. Matrimonio. Una figlia.
Una vita borghese e confortevole nella Hong Kong del dopo
handover, in cui l’immutato benessere dona l’illusione
che nulla sia cambiato. Un senso di colpa per aver abbandonato
l’amante (che si è fatta monaca buddista.
E’ pur sempre un melò, è pur sempre
Hong Kong!), e mani lavate in continuazione (è
il gesto che si ripete più volte nel film). E quando
la passione ritorna, nella persona di una decisa, seducente
e disincantata ragazza, è una passione matura,
che implica scelte dolorose, ma consapevoli e necessarie.
Gege (Brother) era il viaggio infruttuoso alla ricerca
del fratello maggiore scomparso, di una Cina che si nega,
muta ed elusiva, di una identità mancata. Hutie
è la fine del viaggio, l’arrivo, l’identità
acquisita e affermata. Identità sessuale, per ora.
Ma domani forse politica o nazionale.